Risoluzione per inadempimento del Leasing finanziario: le Sezioni Unite concludono per l’inapplicabilità in via analogica della Legge n. 124 del 2017 ai contratti risolti precedentemente – Cass SSUU 28 gennaio 2021 n. 2061

Risoluzione per inadempimento del Leasing finanziario: le Sezioni Unite concludono per l’inapplicabilità in via analogica della Legge n. 124 del 2017 ai contratti risolti precedentemente – Cass SSUU 28 gennaio 2021 n. 2061

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Con la recente sentenza del 28 gennaio 2021, n. 2061 le Sezioni Unite della Suprema Corte fanno chiarezza sull’applicabilità della Legge n. 124/2017 ai contratti di leasing risolti per inadempimento precedentemente alla sua entrata in vigore, escludendola in favore dell’applicazione dell’art. 1526 c.c.

La risoluzione per inadempimento del contratto di leasing nella Legge n. 124/2017

La legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), all’art. 1, commi da 136 a 140 ha introdotto una significativa novità nella disciplina della risoluzione per inadempimento dei contratti di leasing, ponendo fine ad un annoso dibattito dottrinale che non aveva trovato nei Tribunali e presso la Suprema Corte definizioni univoche e sempre coerenti.

Precedentemente, infatti, l’orientamento giurisprudenziale prevalente e consolidatosi negli anni in caso di risoluzione per inadempimento del contratto, ne determinava la disciplina applicabile a seconda della natura – “traslativa” o “di godimento” – della locazione finanziaria, per la cui determinazione occorreva analizzare la fattispecie concreta alla luce di particolari indici, quali, ad esempio, il valore residuo del bene al momento della scadenza del contratto, l’ammontare dei canoni pagati e dell’opzione di riscatto.

Nel caso del leasing traslativo la giurisprudenza riteneva applicabile per analogia la disciplina dettata dall’art. 1526 c.c. sulla vendita con patto di riscatto, mentre al leasing di godimento veniva applicata la disciplina di cui all’art. 1458 c.c. per i contratti a prestazioni continuate o periodiche.

Si insegnava anche che il leasing poteva considerarsi di natura traslativa quando il corrispettivco versato dall’utilizzatore per ottenere la disponibilità del bene incorporava anche una quota significativa di quello che sarebbe stato il suo valore d’acquisto (con la conseguenza che il suo valore residuo era significativamente maggiore a quello dell’opzione d’acquisto), mentre la figura del leasing di godimento ricorreva quando l’ammontare dei canoni di locazione remunerava semplicemente il costo della messa a disposizione del bene all’utilizzatore.

La prima figura ricorreva più spesso per i beni destinati ad una maggiore durata (es. tipico il caso del leasing immobiliare o di attrezzature industriali particolarmente complesse e non facilmente rivendibili sul mercato), mentre la seconda era maggiormente utilizzata per i beni a rapida obsolescenza.

Peraltro, tale distinzione non trovara riscontro nella modulistica contrattuale adottata dai concedenti, che – con clausole via via più standardizzate negli anni – si era sviluppata avendo riguardo alla necessità che il finanziatore potesse recuperare dall’operazione il valore dell’investimento effettuato ed il guadagno atteso.

Tale impostazione, infine, era stata condivisa anche dall’evoluzione giurisprudenziale di una parte della giurisprudenza di merito, che si era occupata di giudicare la legittimità dell’assetto contrattuale di interessi previsto dai contratti.

La novella del 2017 ha in qualche misura recepito tale orientamento, poiché non considera più la distinzione tra le figure del leasing traslativo e di godimento e detta finalmente una discplina unitaria per il delicato aspetto della risoluzione contrattuale per inadempimento dell’utilizzatore. Essa testualmente dispone che:

  1. Per locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo
    di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a
    far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di
    perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del
    prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di
    acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di
    restituirlo.
  2. Costituisce grave inadempimento dell’utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due
    canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni
    mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria.
  3. In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha
    diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra
    collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non
    pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio
    dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per
    il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti
    dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare
    dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente
    .
  4. Ai fini di cui al comma 138, il concedente procede alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei valori
    risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati. Quando non è possibile far riferimento ai predetti valori, procede alla vendita sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti di comune accordo nei venti giorni successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo nel predetto termine, da un perito indipendente scelto dal concedente in una rosa di almeno tre operatori esperti, previamente comunicati all’utilizzatore, che può esprimere la sua preferenza vincolante ai fini della nomina entro dieci giorni dal ricevimento della predetta comunicazione. Il perito è indipendente quando non è legato al concedente da rapporti di natura personale o di lavoro tali da compromettere l’indipendenza di giudizio. Nella procedura di vendita o ricollocazione il concedente si attiene a criteri di celerità, trasparenza e pubblicità adottando modalità tali da consentire l’individuazione del migliore offerente possibile, con obbligo di informazione dell’utilizzatore.
  1. Restano ferme le previsioni di cui all’articolo 72-quater del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e si applica, in
    caso di immobili da adibire ad abitazione principale, l’articolo 1, commi 76, 77, 78, 79, 80 e 81, della legge 28
    dicembre 2015, n. 208.

L’inapplicabilità dell’art.1, comma 138 Lg. n. 124/2017 ai contratti di leasing risolti precedentemente e la motivazione delle Sezioni Unite.

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere due questioni di particolare importanza circa la perdurante applicabilita’ dell’articolo 1526 c.c. ai contratti di leasing risolti prima dell’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 e riassumibili, in sintesi, come segue:

1 – se l’interpretazione dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, articolo 1, commi 136-140, secondo cui tale norma imporrebbe di abbandonare (anche per i fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore) il tradizionale orientamento che applica alla risoluzione del contratto di leasing traslativo l’articolo 1526 c.c., sia coerente coi principi comunitari di certezza del diritto e tutela dell’affidamento;

2 – se sia legittimo un procedimento di applicazione analogica definita “diacronica”, “per effetto della quale la norma da applicare per analogia al caso concreto potrebbe anche non esistere al momento di realizzazione della fattispecie, purche’ esista al momento della decisione.

Le motivazioni della sentenza sono estremamente analitiche e complesse ed in questa sede devono necessariamente essere sintetizzate nei loro concetti portanti, lasciando al lettore l’onere dell’approfondito esame del provvedimento allegato. Esse sono sintetizzabile come segue:

1 – con l’avvento di una nuova legge si pone un problema di effetti intertemporali rispetto alla disciplina previgente, che, se non regolati quest’ultimi direttamente dal legislatore tramite disposizioni che modulano la transizione dalla vecchia disciplina alla nuova (e, dunque, intervengono sui profili di eventuale ultrattivita’ della prima o retroattivita’ della seconda), sono da risolversi in base alla teoria del c.d. “fatto compiuto”, da tempo enucleata dalla Suprema Corte (tra le altre, Cass., S.U., 12 dicembre 1967, n. 2926, Cass., 20 marzo 1969, n. 858, Cass., 11 luglio 1975, n. 2743, Cass., 29 aprile 1982, n. 2705; Cass., 28 aprile 1998, n. 4327, Cass., 28 settembre 2002, n. 14073, Cass., 3 luglio 2013, n. 16620, Cass., 2 agosto 2016, n. 16039, Cass., 13 ottobre 2016, n. 20680, Cass., 14 ottobre 2019, n. 25826, Cass., S.U., n. 29459 del 2019, citata). Sulla base di tale regola, i fatti compiuti al momento dell’emanazione della nuova normativa continuerebbero ad essere regolati dalle norme precedenti, mentre quelli ancora non compiuti potrebbero essere regolati dalla normativa sopravvenuta.

2 – La normale irretroattività della legge e la teoria del fatto compiuto sarebbero a presidio di importanti principi dell’ordinamento, quali la tutela del legittimo affidamento, la sicurezza giuridica e la certezza del diritto.

3 – Pertanto, al fine di poter colmare l’eventuale lacuna che l’ordinamento esibisca rispetto alla disciplina di un caso concreto, il procedimento analogico (o interpretazione/integrazione analogica) esige (articolo 12 preleggi, comma 2) che la disposizione (analogia legis) o lo stesso “principio generale dell’ordinamento” (analogia iuris), che a quel caso forniranno la regula iuris in quanto si possa ravvisare la “eadem ratio” – ossia la medesima ragione giustificativa che legittima il ricorso al procedimento stesso, cio’ implicando il riconoscimento a monte di un rapporto di similitudine fondato sulla comunanza di elementi (giuridici o fattuali), strutturali e/o funzionali, rilevanti devono essere presenti all’interno dell’ordinamento (quali norme frutto dell’attivita’ interpretativa svolta) nel momento in cui il giudice si trova a doverli applicare, non potendo egli fare opera creativa nei termini appena evidenziati.

E ciò sulla base della considerazione secondo cui “non puo’ l’interpretazione delle norme da parte del giudice “interferire sul terreno della vigenza della legge che e’ connessa alla sua entrata in vigore come dalla stessa predeterminata con regole generali (articoli 10, 11, 14 e 15 disp. gen.) o specifiche vincolanti per l’interprete“.

Sulla base di tali principi, la Suprema Corte giunge alla conclusione che i contratti di locazione finanziaria risolti prima dell’entrata in vigore della Legge n. 124/2017 dovranno continuare ad essere regolati sulla base della tradizionale distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo e della conseguente applicabilità dell’art. 1526 in un caso c.c. e dell’art. 1458 c.c. nell’altro.

Aspetti problematici delle conclusioni della Suprema Corte

Le motivazioni della sentenza sono analitiche. Tuttavia, le conclusioni alle quali giunge la Suprema Corte non convincono.

In primo luogo, per il ruolo assegnato al cosiddetto “diritto vivente”, che la Corte nel caso di specie individua nella trentennale giurisprudenza di legittimità che ha fondato la distinzione pretoria tra leasing traslativo e leasing di godimento.

Sostiene la Corte che il “diritto vivente” di un determinato momento storico dovrebbe continuare ad applicarsi a tutti i fatti compiuti ed esauriti in quel periodo, anche laddove sia intervenuta nelle more una nuova disciplina legislativa.

Pertanto, il “diritto vivente” di origine giurisprudenziale viene di fatto equiparato alla legge antecedentemente in vigore, con un’alterazione del sistema delle fonti, che non prevede la giurisprudenza come elemento creativo di norme e diritti.

Di ciò, peraltro, sembra consapevole anche la sentenza in commento, laddove afferma che:

Al “precedente”, infatti, e’ affidato quel grado di stabilita’ che il dinamismo propulsivo dell’ordinamento giuridico, alimentato dal mutamento dei fattori ambientali (socio-economici) regolati, rende, comunque, solo tendenziale e che l’evoluzione giurisprudenziale sa, per l’appunto, cogliere in un incessante riequilibrio delle condizioni atte a garantire tutela ai beni/interessi che, come detto, a buon ragione la reclamino in termini di effettivita’ proprio attraverso lo jus dicere…

Tuttavia, non puo’ l’attivita’ di interpretazione delle norme, come tale, superare quei limiti che si impongono nel suo svolgimento e che danno la misura della distinzione di piani sui quali operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice, tanto da non potersi collocare il “precedente” stesso, seppure proveniente dal giudice di vertice del plesso giurisdizionale (e, dunque, anche se integrativo del parametro legale: articolo 360 bis c.p.c., n. 1), allo stesso livello della cogenza che esprime, per statuto, la fonte legale (cfr. anche Corte Cost., sent. n. 230 del 2012), alla quale il giudice e’ (soltanto) soggetto (articolo 101 Cost., comma 2)…

Il legislatore, infatti, “introduce nell’ordinamento un quid novi che rende obbligatorio per tutti un precetto o una regola di comportamento”; il giudice, come detto, “applica al caso concreto la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica (Corte Cost. n. 155 del 1990) e in tal modo ne disvela il significato corretto, pur sempre insito nella stessa, in un dato momento storico, quale espressione di un determinato contesto sociale e culturale” (Cass., S.U., n. 4135/2019)…

E’ in tal senso, pertanto, che la funzione assolta dalla giurisprudenza e’ di natura “dichiarativa”, giacche’ riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale e’ volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, “con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa” (Cass., 25 febbraio 2011, n. 4687; Cass., S.U., 24 aprile 2004, n. 21095)”.

Tuttavia, chiunque si sia occupato di leasing negli ultimi trent’anni (il sottoscritto “solo da venti” e, pertanto, mi sarà perdonata qualche dimenticanza) sa bene che la giurisprudenza formatasi sul leasing traslativo e di godimento ha assolto ad un ruolo eminentemente creativo, perché ha reso impossibile per molto tempo ricostruire nel nostro ordinamento la figura unitaria della locazione finanziaria quale contratto con causa di finanziamento, tradendo lo schema unitario del negozio originariamente sviluppatosi nel mondo anglosassone.

Secondo la Corte, “La ragione di questa distinzione nella disciplina degli effetti risolutori tra le due figure di leasing e’ quella di far fronte, nel caso di leasing traslativo, all’esigenza di porre un limite al dispiegarsi dell’autonomia privata la’ dove questa venga, sovente, a determinare arricchimenti ingiustificati del concedente, il quale, seguendo lo schema da lui predisposto, si troverebbe a conseguire (la restituzione del bene e l’acquisizione delle rate riscosse, oltre, eventualmente, il risarcimento del danno, ossia) piu’ di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere per il caso di regolare adempimento del contratto da parte dell’utilizzatore stesso (tra le molte, Cass., 4 luglio 1997, n. 6034)“.

Tuttavia, per conseguire il medesimo risultato, l’ordinamento già conosceva l’art. 1384 c.c., la cui concreta e prudente applicazione avrebbe consentito di conseguire i medesimi risultati pratici senza snaturare l’unitarietà della tipologia contrattuale della locazione finanziaria.

L’elemento riequilibratore del contratto, dunque, avrebbe potuto essere trovato nella modulazione della quantificazione del danno risarcibile, con un approccio eminentemente casistico, che avrebbe potuto meglio apprezzare in ciascuna fattispecie concreta la differenza tra l’assetto di interessi che le parti avrebbero conseguito se il contratto fosse stato regolarmente adempiuto e quello in cui si sono venute a trovare a seguito dell’inadempimento.

In tale differenza, infatti, risiede la ragione della sanzione dell’inadempimento contrattuale.

Di tali arresti, peraltro, è disseminata la giurisprudenza di merito – e segnatamente quella meneghina – che ha raggiunto i medesimi risultati pratici perseguiti dal legislatore del 2017 con molti anni di anticipo, senza passare per l’applicazione dell’art. 1526 c.c. e senza essere mai recepita dalla Suprema Corte.

Dunque, l’applicazione in via analogica dell’art. 1526 c.c. non era e non è stato l’unico modo per ricondurre ad equità gli effetti della risoluzione per inadempimento della locazione finanziaria.

Ne deriva che l’enfasi sull’efficacia ratione temporis del diritto vivente quale norma di paragone sulla quale fondare il ragionamento analogico appare fuori luogo.

Sia perché esso – come detto – non è norma e sia perché il ricercare a posteriori nei precedenti giurisprudenziali di un tempo determinato e trascorso l’esistenza di un diritto vivente e stabilirne con esattezza i contenuti è pratica che rischia di sconfinare nell’arbitrarietà.

Arbitrarietà che si manifesta anche nel non riconoscere che negli ultimi anni il legislatore – a più riprese – ha inteso regolare unitariamente la fattispecie della locazione finanziaria, così sconfessando l’approccio adottato per anni dal “diritto vivente” che non è stato evidentememnte ritenuto al passo con la natura giuridica e l’evoluzione sociale della locazione finanziaria.

Arbitrarietà che è il contrario della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento delle parti che la Corte, invece, richiama per corroborare la perdurante applicabilità dell’art. 1526 c.c. ai contratti di locazione finanziaria risolti prima della Legge 124/2017.

Ma una volta che il legislatore abbia emanato una norma che esplicitamente detta gli effetti della risoluzione per inadempimento della locazione finanziaria non è possibile non tenerne conto anche per definire i rapporti sorti precedentemente, in assenza di norme esplicite.

Né può sostenersi – come fa la Suprema Corte – che l’interpretazione analogica fondata su una norma di successiva emanazione equivalga ad assegnare a tale norma una retroattività che l’ordinamento non ha voluto riconoscerle.

E ciò per l’evidente constatazione che una norma racchiude in sé regole e principi che possono legittimamente fondare un’interpretazione evolutiva del diritto, consentendo alla giurisprudenza di colmare le distanze tra il dettato normativo e la realtà sociale, dichiarando l’esistenza di regole desunte dal complesso delle norme esistenti in un dato momento storico.

D’altra parte, stante l’esistenza di arresti e precedenti giurisprudenziali che avevano già in passato dichiarato l’inapplicabilità dell’art. 1526 c.c., la Suprema Corte aveva ogni possibilità di riconoscere che già prima dell’entrata in vigore della Legge n. 124/2017 e dell’art. 72-quater della L.F. era possibile enucleare dall’ordinamento i medesimi principi poi recepiti dal legislatore.

Con ciò riconoscendo che la giurisprudenza minoritaria di merito aveva interpretato la legge in maniera corretta, riuscendo persino ad orientare le future scelte del legislatore, unitamente alle prassi che si erano imposte nel mercato e nella modulistica di settore.

In altri termini, se non è consentita l’analogia legis con la norma successiva, non può impedirsi all’interprete di utilizzare l’analogia iuris con i principi già desumibili dall’ordinamento e fatti propri dalla norma (anzi, dalle norme) di successiva emanazione.

Meglio avrebbe fatto la Suprema Corte a riconoscere esplicitamente che il precedente approccio non rispondeva pienamente alle esigenze che la locazione finanziaria intendeva soddisfare, così come del resto era già implicitamente chiaro per il fatto che negli anni la giurisprudenza aveva dovuto continuamente adeguare le nozioni di equo compenso e di risarcimento del danno ben al di là dei concetti già previsti per la vendita con riserva di proprietà dall’art. 1526 c.c.

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